“MARIO LIBERA TUTTI!” La tradizione: amore o moralismo?

Giuseppina Rotondi

“MARIO LIBERA TUTTI!”
La tradizione: amore o moralismo?

Ed eccoci al Natale, simbolo di tradizione.
La tradizione è la culla dell’amore: porta con sé gioia, felicità, nostalgia nel cuore, ci rende teneri e accoglienti, desiderosi di amare e di condividere amore. Il tempo sembra tornare indietro, a quando da bambini ci sentivamo amati e protetti cullati dalla tradizione. La tradizione è famiglia, appartenenza, sicurezza.
La parola tradizione deriva dal verbo latino “tradere” che significa “affidare/consegnare”
.Quando la tradizione è mossa dall’amore si conferma nel suo significato più elevato: la consegna ai posteri di rituali “affettivi” grazie ai quali il passato entra nel presente e il presente nel futuro; doni sacri e preziosi di chi ci ha preceduto, di chi nel rispetto della tradizione ha voluto tramandare l’amore e la dedizione alla famiglia, un amore vivo nel ricordo, una dedizione che resti nel tempo.
Ma a seconda di come la viviamo, la tradizione può prendere due vie: quella dell’amore, che include il tra-mandare nella libertà o quella del moralismo che ne frena il movimento.


La via dell’amore
Quanti a Natale vorrebbero fare qualcosa di diverso, ma finisce sempre per vincere la paura di “tradire la tradizione”?
Il vero amore lascia liberi ed è nella libertà che l’affetto si rafforza e diventa più autentico. Non è facile rinunciare alla presenza di qualcuno a cui si vuole bene, ma l’amore è al servizio della vita ed è sempre pronto a sacrificarsi a favore di nuove forme di espressione.
L’amore per la tradizione è qualcosa che si sente nel cuore, indipendentemente dalla tavola a cui siamo seduti; crea legami indissolubili e ciò che ci è stato tramandato ci accompagna ovunque andiamo.
Il cuore è uno scrigno pieno di ricordi e di immagini che si può condividere con chiunque, perché l’amore non è selezionabile e neanche si può ridurre a stereotipo.
Allora la tradizione può diventare “universale” e ci permette di vivere la gioia dello stare insieme senza rimanere prigionieri di schemi chiusi e ripetitivi. Non è la presenza fisica a determinare l’amore, ma la presenza nel cuore.
Quando siamo spinti a vivere nuove forme dobbiamo credere e sentire di poterlo fare, portando tuttavia nel nuovo il sapore di sempre.
Quando ci sentiamo sicuri dell’amore dei “grandi”, siamo liberi e la nostra tradizione può prendere la sua forma: un regalo, un pranzo, una cena, un bacio, un abbraccio, una passeggiata, un biglietto scritto a mano… l’importante è che dentro vi sia riposto un amore libero e incondizionato.

La via del moralismo
Cosa succede alla tradizione quando prende la forma di una rappresentazione teatrale che si svolge sempre sullo stesso palcoscenico?
Diventa un contenitore di falsa e apparente sicurezza fondata su doveri e sensi di colpa, diventa una ripetitività rigida e obbligata, uno strumento nelle mani di chi è insicuro dell’amore e ha paura di essere abbandonato. Il cuore viene sostituito dalla paura di non essere amati e la tradizione cambia il suo volto, diventa un cappio al collo che blocca ogni nuovo movimento, un abbonamento annuale, un cartellino da timbrare. Diventiamo dipendenti dall’attaccamento e lasciamo che la tradizione prenda la via del moralismo che giudica e condanna chi non rispetta le sue regole.
L’essere moralisti nasce dalla paura del cambiamento e ci induce a restare nella zona confort dove ci sembra che l’amore sia al sicuro; la conseguenza è che restiamo imbrigliati in una rete di condizioni e aspettative, col dito puntato su chi “tradisce”.
In realtà anche chi “tra-disce” sta affidando ad altri quello che ha ricevuto in consegna.

Il moralismo trattiene
Cosa si nasconde dietro a un atteggiamento moralista?
Mentre l’amore ha origine dal nostro essere spirituale, il moralismo invece deriva dal nostro essere umano, limitato, che si serve della tradizione a favore della sua paura primaria: la separazione. Separazione significa abbandono e abbandono significa morire. Ogni separazione rievoca la morte; per questo pur di non provare quella paura, alimentiamo attaccamento e la tradizione diventa per noi strumento di ricatto, sviluppando una coscienza fatta di credi e credenze che hanno l’unico fine di tenerci legati (poco importa se nell’infelicità).
Tratteniamo anziché lasciare andare…
La famiglia diventa conservatrice ed esercita il controllo di chi si comporta bene e chi si comporta male, senza sapere che è proprio questo a togliere ogni possibilità di movimento e a condurre verso la morte. La paura innata dell’abbandono fa restare aggrappati alle consuetudini e alle tradizioni, allontanando la fiducia di essere amati per ciò che si è e non per ciò che si fa.
Si fa di tutto nel timore di perdere l’amore: ci si mette rigorosamente in giacca e cravatta, si indossano abiti luccicanti, ci si affanna in corse a comprare regali, si ricorre a cibi tradizionali, addobbi, alberi, presepi e persino a cappellini rossi dotati di pon pon bianco. Puntualmente ogni anno si risveglia la vocina del grillo parlante: “E’ Natale! C’è il cenone della vigilia, il pranzo, il panettone, gli auguri, la tombola, i regali!”.
E guai a chi non esegue alla lettera il copione.
Nel mentre che diventiamo moralisti, ereggendoci a giudici inflessibili, il Natale diventa un “teatro” che replica ogni anno lo stesso spettacolo.

Il “risveglio”
Ma cosa accade quando uno degli “attori” si risveglia dal torpore?
“Quest’anno Mario ha deciso di non venire al cenone e neanche allo scambio dei regali!!!”.
Il panico della decomposizione dilaga all’interno della famiglia. I più impauriti di perdere l’amore iniziano a imprecare contro il povero Mario che, da essere il più benvoluto di tutti, viene declassato a ingrato, incosciente, menefreghista, egoista, solo perché colpevole di aver fatto una scelta diversa.
In realtà Mario non è altro che lo specchio in cui tutti hanno l’opportunità di riflettersi, lo specchio del desiderio di libertà.
“Allora anch’io posso farlo…!”, pensa il cuore di ognuno.
L’amore ha due aneliti contrapposti: uno che desidera la libertà e l’altro l’appartenenza. A causa del moralismo, anziché completarsi, le due forze entrano in conflitto tra loro e da aneliti si trasformano in aspettative, bisogni e necessità.

Siamo tutti uniti in un unico campo
La famiglia si comporta come un unico organismo dove il sentire di uno racchiude il sentire dell’altro.
Chi “tradisce”, in realtà, sta gettando un seme di libertà nato da tempo e non necessariamente da Mario, ma forse da qualcun altro che ha riposto nella sua ombra lo stesso desiderio... Ma quando l’ombra non si manifesta, prima o poi esplode come una bomba e non si sa chi va a colpire. Questa volta è toccato a Mario che allora, con il suo “tradimento”, innesca un effetto boomerang: “Mario libera tutti!”.
Basta che uno della famiglia si assuma la responsabilità del cambiamento, per dare anche agli altri la possibilità di metterlo in atto. Di solito sono i più piccoli o gli ultimi arrivati ad accollarsi il “risveglio” e la colpa per cambiare.
Chi riconosce in sé l’ombra di Mario riuscirà a gioire per lui e con lui, chi invece avverte ancora il bisogno di una condizione di sicurezza (fallace e apparente), continuerà a giudicarlo un infedele e si farà carico anche del suo posto vuoto per riempirne la mancanza. Più forte è la paura della libertà, più forte è il suo giudizio.

Il moralismo ci protegge dal senso di colpa
Anche il moralismo a modo suo ama. Ci fa puntare il dito verso l’esterno distogliendolo da noi stessi, ma solo per proteggerci dalla libertà.
Per sentirsi amati i bambini sviluppano il bisogno d’innocenza, che li porta a tenere una serie di comportamenti fedeli alla famiglia. Per questo la libertà ci richiede un caro prezzo: il peso della colpa, che molti non sono in grado di sopportare. Lasciare i vecchi schemi vuol dire separarsi da chi si ama e piuttosto che sentirne il dolore e la colpa, si preferisce scivolare nel giudizio e nella rabbia contro chi invece con coraggio decide di affrontarli.
È più facile rendersi colpevoli o restare prigionieri dell’innocenza?
Fedeltà e tradimento sono facce di una stessa medaglia. Quando prometto fedeltà sto già tradendo qualcuno.
“Sono fedele a te” è come dire: “Non lo sono a qualcun altro” e mentre la paura della colpa detiene il potere, il moralismo continua la sua recita scambiandola per tradizione.
Nelle nuove coppie, ad esempio, dove i partner sono accomunati da identiche tradizioni, se la scelta di trascorrere il Natale va sempre a vantaggio di una famiglia e a discapito dell’altra, il partner proveniente da quest’ultima prima o poi avvertirà il peso della colpa.
In questi casi è possibile trovare un compromesso per trascorrere il Natale una volta con l’una e una volta con l’altra oppure trovare all’interno della coppia una nuova forma.

L’amore c’è e continua nell’adulto
Quando si suda per ricevere amore, vuol dire che siamo tornati bambini, di quelli ancora in richiesta verso i genitori.
Il bambino non è mai sazio, l’adulto invece è sicuro e appagato dell’amore dei suoi genitori; sa che lo hanno amato, in qualsiasi modo lo abbiano fatto. Con questa sicurezza nel cuore l’adulto è libero di scegliere e di decidere con chi trascorrere il suo Natale. Sa accogliere il cambiamento, sa sostenere la separazione, forte di quell’amore originario che non gli verrà mai negato.

La responsabilità: una risorsa necessaria alla vita
Vita e amore sono un continuo movimento creatore. Se non sappiamo stare nel cambiamento non stiamo nella vita.
La vita, per andare avanti, richiede continuamente di lasciare il vecchio per il nuovo e di assumersi la colpa per non lasciarla ad altri. L’adulto ha il compito di mettere in atto il cambiamento, trasformando la colpa in responsabilità.
Essere responsabili non vuol dire votarsi al sacrifico o al martirio; il prezzo della salvezza altrui non può essere la morte dell’eroe.
Responsabilità significa “prendo atto di ciò che lascio, ne riconosco il valore e la bellezza, decido di stare con il dolore e me ne assumo ogni conseguenza”.
La responsabilità è la risorsa che ci dà la forza e il coraggio di abbandonare la “maschera perfetta”, al tempo stesso onorando il passato e andando incontro al nuovo che la vita ci offre.

L’amore sveglio
L’amore sveglio libera la tradizione dal moralismo: questo significa essere pronti ad andare oltre la paura e a convivere con le emozioni meno desiderate (nostalgia, tristezza, dispiacere). L’amore sveglio è consapevole e non resta vittima di questa o quella situazione; sa andare e sa anche restare, ma in un modo del tutto nuovo.
La tradizione sulla via dell’amore non vuole essere subita, né ristretta a condizioni e pregiudizi, ma è pronta a condurre per mano chi l’ha sempre onorata verso nuove manifestazioni di sé.
Ribellarsi al moralismo è un atto che parte dal cuore, è un servizio al bene comune. Le pecore nere sono i diamanti preziosi del gregge, portano in sé la diversità senza la quale è impossibile crescere e rinnovarsi.
Chi si libera dal moralismo non sta rifiutando la famiglia né tanto meno la tradizione, sta solo abbracciando il suo percorso e quello della sua anima. Se siamo pronti ad accettare questo, arriva il perdono al di là di ogni giudizio.

Amore e moralismo viaggiano su due binari paralleli, destinati a non incontrarsi mai; sta a noi capire su quale binario intendiamo vivere il nostro Natale.

VI AUGURO UN BUON NATALE SULLA VIA DELL’AMORE
Pina

Autore: Giuseppina Rotondi 16 aprile 2025
La Settimana Santa è il passaggio dall’oscurità alla luce. La luce della Risurrezione. È quel tempo in cui ci sembra di aver perso l’anima, quando invece è lei ad aver perso Dio, smarrita tra ego e paura. Il cammino verso la sua Pasqua è fatto di passaggi profondi e sacri: confessione, penitenza, purificazione, trasformazione. Se liberate dal significato tradizionale, queste parole riacquistano la loro verità. Confessare significa riconoscere dove l’ego ha prevalso, dove le nostre scelte hanno generato disarmonia. È il primo passo, quello che ci porta dalla colpa alla responsabilità. È dire: “Questa parte è mia, la riconosco, e scelgo di trasformarla”. Da quel momento i nostri errori vengono rimessi nelle mani del grande movimento dello Spirito, quella forza creatrice che opera silenziosamente e che tutto trasforma. Inizia così la penitenza, intesa non come sacrificio punitivo, ma come gesto consapevole di rinuncia. Rinuncia a ciò che appare indispensabile per il piccolo ego, ma che in realtà limita l’anima. La penitenza purifica la parte più profonda di noi, quella che sa abbandonare vecchi automatismi per un nuovo più autentico. È un modo per purificare il cuore, spogliarsi e indossare vesti nuove, come facevano i nostri genitori il giorno di Pasqua per simboleggiare l’avvenuto rinnovamento. Come Gesù nell’Orto dei Getsemani, sopraffatto dalla paura, chiese al Padre di allontanare il calice, anche noi, nella nostra fragilità, possiamo tendere un ponte verso Dio. È lì, nel fondo della notte interiore, che Lo incontriamo; nel luogo senza riferimenti, nell’ignoto, nel caos, nell’insicurezza della paura. Quando tutto sembra finito e arriva il dono della resa; quando il rumore si placa e finalmente possiamo ascoltarLo. La Settimana Santa diventa così riconciliazione, una preghiera che non chiede, che non sa cosa avverrà né cosa porterà. Quel vuoto fertile dove avviene il miracolo: il corpo si dissolve e dalla tomba interiore risorge lo Spirito. La Settimana Santa apre nuove strade, quelle che attendono di risorgere con noi. E quando questo avverrà, saremo dei perfetti sconosciuti, persino a noi stessi. “Cosa ho fatto oggi a servizio della vita e degli altri?”. È questa la domanda che nasce nel cuore rinnovato, perché il servizio è la forma più concreta della Risurrezione. È il miracolo dopo la sofferenza. La Risurrezione non è un’ascesa o una fuga verso l’alto, è un risveglio che accade qui, nel corpo, nella materia, nel presente. In un amore che si fa utile. È un miracolo per chi sa accoglierlo. Ed è lì, in quell’umile disponibilità al nuovo, che incontro Dio. Buona Pasqua a tutti, dal cuore. Giuseppina
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