LE FRANE NEL CUORE

Giuseppina Rotondi

Le frane nel cuore

Monterenzio (BO), 18/5/2023


Stamani ho viaggiato tra le frane, il fango, i tanti giubbotti arancioni pronti a far segno con la mano di rallentare perché la strada è pericolosa. Persone fuori dalle case a contare i danni, a prendere coscienza di ciò che c’era e di ciò che è andato… La distruzione porta il cambiamento, il nuovo, la cura per quelle cose lasciate in fondo alla cantina in attesa di essere sistemate, rivalutate, eliminate. 

Volti attoniti che si rimproverano per non averci pensato prima, per essere stati distratti, per aver atteso, rinviato, per essere stati incoscienti, volti arrabbiati e pieni di astio verso il cielo, la pioggia, gli alberi, la terra, i fiumi. 

L’uomo spesso dimentica che è stata la Natura a generarlo e non viceversa. La Natura è nostra Madre e si comporta come tale; ama l’uomo, ma quando questi ha bisogno di diventare grande e responsabile, è pronta anche ad abbandonarlo. L’uomo pensa di conoscerla e di poterla controllare, allora lei diventa impetuosa, si sente sopraffatta, invasa, la sua forza diventa spietata e ogni tipo di strategia per arginarla è vana.

Quando l’uomo le si avvicina troppo e le toglie il suo posto di Grande Madre, considerandola piccola e gestibile, lei sguaina la sua spada. 

La Natura, così come nostra madre, è l’essere più sconosciuto che ci sia e tutto ciò che crediamo di sapere su di lei serve solo a sedare la nostra paura di non sopravvivere.

Ogni volta che l’uomo abusa della Natura, diventando troppo invadente e prepotente, lei mette un fermo. E non è mai a favore di se stessa, ma di un fine più elevato. Arriva, sconquassa gli animi e ristabilisce un ordine, interiore ed esteriore, affinché possa tornare il rispetto per la vita e per chi deve ancora venire. Se gli uomini non sono capaci di pensare al proseguo della loro specie, lo deve fare lei, anche pronta a sacrificare se stessa. Quando si scatena, pone l’uomo di fronte alla propria impotenza, gli toglie il comando e lo rimette al suo posto, lo riporta a uno stato di essenzialità e di presenza, pronto ad attivarsi non solo per se stesso, ma a favore del bene comune. Il sentirsi vittime di una calamità fa ritrovare la fratellanza e attiva risorse per una nuova ricomposizione del tutto, distrugge il piccolo orticello per crearne uno al quale tutti possono attingere. 

Attraverso l’impotenza, gli uomini si ridimensionano, diventano parsimoniosi, capaci di selezionare i propri bisogni e di rinunciarvi a favore di tutti, lasciando nel cuore solo il ricordo dell’unione e il coraggio di chi è andato a salvare, a spalare, a rimuovere fango dai luoghi importanti e necessari per le famiglie, per il lavoro, per la vita.

L’impotenza e la disperazione scuotono gli animi e allo stesso tempo risvegliano l’anima dimenticata. 

Mentre gli animi si agitano, si attivano, si rimboccano le maniche, si aiutano, si sostengono, si abbracciano, si consolano, piangono insieme, l’anima mostra il suo amore incondizionato, la sua alleanza, la sua gioia di amare, si distende e riprende fiato, impegnata com’è tutti i giorni a rincorrere la quotidianità. 

L’anima non si dispera, non ha bisogno di case né di strade per viaggiare e, mentre l’animo soffre, lei si vive la sua esperienza terrena tra smottamenti e frane. 

La Natura stessa è anima, che con il suo sconfinamento ci insegna quanto fa male sconfinare, una sorta di educazione attraverso “occhio per occhio, dente per dente”. Ci insegna a stare al nostro posto e a rispettare il suo spazio e il suo territorio, ci esorta a curarlo e a sanarlo ogni volta che lo infanghiamo con la nostra incoscienza.

Stamani vedevo orti rovesciati l’uno nell’altro, tra la terra caduta e i sassi fuori dai solchi, seguivano la Natura disobbedendo ai confini dell’uomo. Gli argini proteggono, ma ci isolano nel nostro individualismo, portandoci a guardare solo al nostro orticello.

Ogni volta che incontravo cumuli di terra, alzavo gli occhi e restavo meravigliata di fronte alla grandezza delle montagne, sembravo una bambina davanti a tanti giganti, provavo paura e reverenza allo stesso tempo. Avevo il cuore diviso tra la solidarietà umana e l’ammirazione verso qualcosa di così grande e incontrollabile. Mi sono chiesta da che parte sarebbe stato giusto stare, ma non ho trovato risposta, avrei dovuto eliminarne una e non sapevo quale, fino a che ho capito che entrambe erano parti di me e che avrei dovuto trovare il modo di farle coesistere.

Stamani vedevo anime guerriere partite a salvare il mondo con i loro possenti mezzi (ruspe, gru, camion, trattori), così come anime che consolavano intorno al mucchio di macerie, e altre che distribuivano acqua e viveri, ogni anima impegnata a manifestare la sua maestria, fiera di esserci e di contribuire. Ho visto immagini che, se pur difficili, mettevano pace al mio sgomento; ero fiera di partecipare a tutto questo. Mi commuoveva vedere tanta solidarietà tra gli uomini e, il sapere che in ogni animo questo sentimento esiste, mi faceva stare bene anche in mezzo al fango. Mi sono ritrovata a ringraziare la spietatezza della Natura per aver attivato il mio cuore, l’ho vista grande e capace di distruggere tutto in due giorni, ma anche capace di regalarci posti meravigliosi come Monterenzio e le sue colline. 

Questa esperienza mi sta spingendo ad approfondire la conoscenza con i posti che mi ospitano, affinare le mie capacità anticipatorie, uscire dal guscio della mia ignoranza e iniziare a chiedermi: dove va oggi l’acqua della pioggia? come stanno gli alberi sotto la sua insistente caduta? e la terra? e le montagne? come contribuisco ad alterare i fenomeni atmosferici? cosa posso fare nel mio piccolo? 

Forse c’è bisogno di guardarla più nel profondo la Natura e non solo con uno sguardo ammirato da turista.

Io e mio marito in questi giorni, rimettendo a posto la nostra stradina sconquassata, abbiamo scoperto cose di questo luogo mai sapute. Nell’emergenza siamo stati costretti ad attivare una rete di passaparola con anziani e vecchi proprietari, che ci hanno rivelato pozzi e posti sconosciuti per raccogliere le acque. È stato come aprire un varco verso i boschi e le montagne che ci ospitano, ci siamo sentiti più presenti in questo luogo benedetto dalla Natura. 

Le nostre opere devono guardare non solo alla sicurezza dell’uomo, ma anche al bisogno della Natura, con buon senso e disponibilità. Restare nelle recriminazioni e nelle frasi fatte: “io l’avevo detto”, “questo non è mio”, “qui ci deve pensare il proprietario”, toglie forza alle priorità e all’emergenza. Le pretese ci lasciano in un senso di vittimismo e ci portano a cercare un colpevole che non esiste. 

La Natura non è opera dell’uomo, per questo non potrà mai essere posseduta né divisa e sul suo territorio nessuno potrà mai vantare diritti. I confini di proprietà, scritti sulle carte notarili, sono solo accordi che servono a distribuire l’impegno che abbiamo di salvaguardarla e di proteggerla.

Quando la Natura si sente vista e considerata, è lei stessa a dare protezione e a permetterci di abitarla e di godere di tutte le sue bellezze. 


Giuseppina Rotondi

Autore: Giuseppina Rotondi 16 aprile 2025
La Settimana Santa è il passaggio dall’oscurità alla luce. La luce della Risurrezione. È quel tempo in cui ci sembra di aver perso l’anima, quando invece è lei ad aver perso Dio, smarrita tra ego e paura. Il cammino verso la sua Pasqua è fatto di passaggi profondi e sacri: confessione, penitenza, purificazione, trasformazione. Se liberate dal significato tradizionale, queste parole riacquistano la loro verità. Confessare significa riconoscere dove l’ego ha prevalso, dove le nostre scelte hanno generato disarmonia. È il primo passo, quello che ci porta dalla colpa alla responsabilità. È dire: “Questa parte è mia, la riconosco, e scelgo di trasformarla”. Da quel momento i nostri errori vengono rimessi nelle mani del grande movimento dello Spirito, quella forza creatrice che opera silenziosamente e che tutto trasforma. Inizia così la penitenza, intesa non come sacrificio punitivo, ma come gesto consapevole di rinuncia. Rinuncia a ciò che appare indispensabile per il piccolo ego, ma che in realtà limita l’anima. La penitenza purifica la parte più profonda di noi, quella che sa abbandonare vecchi automatismi per un nuovo più autentico. È un modo per purificare il cuore, spogliarsi e indossare vesti nuove, come facevano i nostri genitori il giorno di Pasqua per simboleggiare l’avvenuto rinnovamento. Come Gesù nell’Orto dei Getsemani, sopraffatto dalla paura, chiese al Padre di allontanare il calice, anche noi, nella nostra fragilità, possiamo tendere un ponte verso Dio. È lì, nel fondo della notte interiore, che Lo incontriamo; nel luogo senza riferimenti, nell’ignoto, nel caos, nell’insicurezza della paura. Quando tutto sembra finito e arriva il dono della resa; quando il rumore si placa e finalmente possiamo ascoltarLo. La Settimana Santa diventa così riconciliazione, una preghiera che non chiede, che non sa cosa avverrà né cosa porterà. Quel vuoto fertile dove avviene il miracolo: il corpo si dissolve e dalla tomba interiore risorge lo Spirito. La Settimana Santa apre nuove strade, quelle che attendono di risorgere con noi. E quando questo avverrà, saremo dei perfetti sconosciuti, persino a noi stessi. “Cosa ho fatto oggi a servizio della vita e degli altri?”. È questa la domanda che nasce nel cuore rinnovato, perché il servizio è la forma più concreta della Risurrezione. È il miracolo dopo la sofferenza. La Risurrezione non è un’ascesa o una fuga verso l’alto, è un risveglio che accade qui, nel corpo, nella materia, nel presente. In un amore che si fa utile. È un miracolo per chi sa accoglierlo. Ed è lì, in quell’umile disponibilità al nuovo, che incontro Dio. Buona Pasqua a tutti, dal cuore. Giuseppina
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